Ecco chi era Daniele Nardi

Cinque settimane e mezza di attesa, dopo quel 16 gennaio, ad inventarsi qualsiasi cosa per ingannare il tempo al campo base, o a battere la traccia nella neve fresca fino all’inizio del ghiacciaio (più per tenervi in movimento che altro) o verso valle (per permettere ai portatori di portarvi i rifornimenti), a disseppellire di ora in ora le tende sommerse dalla neve, ad andare un paio di volte a controllare i materiali fino a Campo 2, senza osare oltre…

eppure non sono certamente mancate le giornate in cui il cielo era benevolo, e le previsioni non erano male, però in quei casi non ti convinceva la montagna, come il 16 febbraio in cui, ridendo al telefono, mi raccontasti “pensa Pippo, oggi al campo base abbiamo pranzato all’aperto con Tom, un sole pazzesco, certo ritrovarsi a scalare sullo sperone in una giornata così sarebbe stata una cosa fantastica…

però non ci siamo fidati ieri, l’atmosfera era pesante su, non ci siamo neanche fermati a dormire a Campo 2 e siamo ridiscesi subito al base, a vederla oggi rosichiamo, ma va bene così, non si sa mai”…

oppure quando mi dicevi “sì, tempo ottimo oggi, lo sperone è in condizioni perfette visto da qui, ma il problema è arrivarci! Sul tratto da qui alla base c’è ancora troppo pericolo che la montagna scarichi, non mi fido, fa rabbia vedere lo sperone così bello da qui, ma aspettiamo ancora”.

O come quella volta, negli anni addietro, quando accendendo il pc al mattino presto feci un salto sulla sedia, nel vedere sulle carte meteorologiche che un massimo secondario della corrente a getto, sganciatosi dal flusso principale, puntava dritto sul Nanga e vi avrebbe investito di lì a poche ore con venti violentissimi, proprio nel giorno in cui sapevo che saresti salito di quota, visto che nelle mappe del giorno prima non c’era traccia di quella dinamica…

mi attaccai al telefono, chiamai tuo fratello Claudio che sapevo essere in costante contatto con te, rispose che in quel momento non aveva ancora ricevuto tue notizie, provai un tuffo al cuore… e dopo un po’ mi richiamò dicendo “tranquillo, era già sceso, guardando il cielo e la montagna ha subdorato che la situazione stesse cambiando, e non si è fidato”, e non è stata l’unica volta in cui il tuo naso da alpinista, la tua capacità di leggere i segnali attorno e sopra di te e di tradurli lucidamente in decisioni da prendere all’istante all’insegna della prudenza, sono arrivati prima delle carte meteorologiche.

Un innamorato della vita, che tutto faceva tranne che metterla a repentaglio, e per il quale scalare era – prima ancora che sogno e passione, prima ancora che attrazione per l’avventura e l’esplorazione su una via di bellezza inaudita e mai percorsa da nessuno – un continuo calcolo, una meticolosa e scientifica pianificazione senza trascurare nessun aspetto, dalla condizione fisica alla logistica, dalla strategia di avanzamento alle condizioni meteo, sapendo bene (forse siamo noi, qui al livello del mare, che ce lo dimentichiamo troppo spesso) che poi nella vita esistono anche gli eventi capaci di sfuggire a qualsiasi precauzione, una ruota che scoppia a un camion mentre lo superi, tornando come tutti i giorni a casa dal lavoro, può portarti improvvisamente e brutalmente, senza alcun preavviso, a un passo dalla morte (sai Dan, è successo pochi giorni fa a un mio caro amico, se l’è cavata per una frazione di attimo, e non c’era assolutamente nulla che potesse fare per eliminare quel rischio, non aveva sottovalutato nessun pericolo, non aveva nessuna colpa, era semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato…

al netto di quel mezzo secondo che l’ha salvato, decidete voi se è stato fortunato lui, o se chiamare sfortuna i casi in cui va a finire male, ma è inutile che cerchiate altri nomi da attribuire a un evento come questo, non ce ne sono, a meno che non invochiate il fato o il livello mistico, naturalmente, ma qui entriamo in altre sfere, sulle quali ognuno ha le proprie risposte).

E infatti, prescindendo da considerazioni sull’opportunità quantomeno della tempistica, con cui tanti opinionisti da social si stanno ignobilmente cimentando a dire la loro (si poteva almeno aspettare un pochino, c’è un tempo per tutte le cose, invece che fare la corsa sciacallistica a parlare in questo momento di estremo dolore), io mi permetto solo di sottolineare che la ricostruzione più plausibile che al momento si può fare dell’accaduto, grazie alla generosa e valorosa opera di ricerca e documentazione di Alex Txikon (di quanto fatto da lui in questa occasione scriverò poi a parte, con calma), è che non si sia trattato di una valanga o del crollo di un seracco (cioè dei motivi per cui quella via è notoriamente pericolosa, ma che tu in questi cinque inverni hai ripetutamente dimostrato di conoscere a menadito, e di sapere bene come minimizzare la propria esposizione a questo pericolo, pianificando meticolosamente giorno per giorno la strategia sia di avvicinamento che di scalata dello sperone, in base alle condizioni contingenti della montagna e del meteo, e rinunciando tante volte a salire se qualcosa non ti convinceva, a costo di eccessi di prudenza e di tornare l’anno dopo), ma di un incidente in parete: impossibile conoscerne i dettagli (purtroppo gli ultimi sorvoli che si sperava di fare, per realizzare foto più ravvicinate, non sono stati possibili, a causa prima di esigenze militari e poi di un guasto tecnico), ma comunque un incidente in parete, come quelli che possono capitare su qualsiasi montagna del mondo, comprese le Alpi e gli Appennini. Per cui dipingerti come un pazzo scriteriato per esserti andato a cacciare su quello sperone, quando – per quello che possiamo attualmente ricostruire – è molto probabile che la tragedia tua e di Tom non abbia nulla a che vedere con la pericolosità di quella via, è davvero qualcosa di ignobile, dettato dall’ignoranza o dalla malafede.

Scrivo tutto questo perché, fra le tantissime cose che mi si accavallano in mente, la prima a cui tengo è di raccontare il Daniele che ho conosciuto, un ragazzo che teneva tantissimo alla vita, al punto da volerla colorare di sogno e di passione, e tutto faceva tranne che esporsi incautamente al pericolo, anzi.

Ed è quello che racconterò a tuo figlio, il giorno che volesse ascoltare un vecchio amico di suo papà.

Per tutti gli altri ricordi, Dan, ci sarà tempo. Il tuo essere ambasciatore dei Diritti Umani nel mondo, la tua opera di supporto e solidarietà alle genti di quelle valli, la grande sintonia con Tom, la felicità quando mi hai detto che sarebbe venuto con te quest’anno e il senso fortemente protettivo che avevi verso di lui (ho i tuoi whatsapp di queste settimane dal campo base del Nanga che lo testimoniano), e tanto altro.

Adesso sono qui solo per abbracciarti, salutarti e ringraziarti, sei stato un compagno di strada semplicemente trascinante, e la fiducia che hai voluto riporre nei miei confronti è stato un pazzesco regalo della vita.

Con te, oltre che un amico, la cui assenza scava inevitabilmente un vuoto inaudito, se ne va l’esperienza più bella, intensa e incredibile della mia vita professionale. Ho guardato ieri per l’ultima volta, perché non credo proprio che lo farò mai più, le carte del jet stream sul subcontinente indiano, era l’ultimo giorno delle operazioni di ricerca, quelle che finora ci avevano tenuti concentrati e trepidanti, e in qualche modo ci hanno garantito un minimo di distacco, perché per dare il contributo migliore possibile non potevamo permetterci di cedere all’emotività, né al dolore. 
Ora, invece, è arrivato il momento più difficile.

CONTINUA A PAGINA SEGUENTE